Manuali

IL PRESUPPOSTO SOGGETTIVO PER LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO

4. Il fallimento dopo la cessazione dell’impresa

Una volta l’impresa sia cessata non si può pensare, in ragione della tutela dei creditori, che l’insolvenza non affiori più. Non rileva né il motivo della cessazione, né il fatto che un evento naturale, come la morte, abbia fatto venir meno proprio l’imprenditore.

L’ordinamento sancisce che la cessazione dell’attività o la morte dell’imprenditore non devono ledere il soddisfacimento dei creditori sorti per l’esercizio dell’impresa e non soddisfatti durante lo svolgimento della stessa. Anzi la presenza di obbligazioni non adempiute può costituire sintomo di uno stato d’insolvenza.

Da quanto detto discende che si potrà avere fallimento anche di un’impresa o di una società non più attivi.

Così, nel caso in cui le obbligazioni contratte dall’imprenditore non possano essere soddisfatte regolarmente, potrà, su iniziativa di uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’art. 6 della Legge fallimentare, accertarsi lo stato d’insolvenza e dichiararsi il fallimento.

Se è indubbio che la tutela dei creditori meriti tale previsione, è necessario anche stabilire un limite temporale.

L’art. 10 della Legge fallimentare fissa un preciso arco temporale entro il quale può dichiararsi il fallimento di un’impresa cessata, tutelando così anche quei soggetti che entrino in contatto con l’imprenditore cessato.

L’apertura della procedura fallimentare è condizionata al fatto che l’insolvenza si sia manifestata già prima della cessazione dell’impresa o entro l’anno successivo e che essa sia relativa ad obbligazioni contratte per l’esercizio dell’impresa.

L’apertura della procedura fallimentare è condizionata al fatto che l’insolvenza si sia manifestata prima della cessazione dell’impresa o entro l’anno successivo e che essa sia relativa ad obbligazioni contratte per l’esercizio dell’impresa.

I creditori rimasti insoddisfatti o il Pubblico Ministero potranno chiedere il fallimento che sarà dichiarato ove risulti che l’insolvenza già esisteva o che si sia manifestata entro l’anno successivo. In questi casi si presume che l’insolvenza sia da collegarsi alla gestione dell’impresa per la quale era stato destinato quel determinato patrimonio che con il fallimento potrà essere aggredito.

Per la persona fisica il criterio adottato per determinare l’abbandono della qualifica dell’imprenditore è sempre stato quello dell’esercizio dell’impresa.: quando si pone fine alla produzione di beni o di servizi, indipendentemente dalla causa, non si è più imprenditori. Ciò comporta una verifica caso per caso per determinare se e quando un’attività possa ritenersi cessata.

La chiusura dei locali, ad esempio, può considerarsi un segnale (presunzione juris tantum) della cessazione, ma poi si deve indagare in concreto se l’attività sia effettivamente cessata.

La questione diventa più difficile per le società e per le associazioni non riconosciute alle quali debba riconoscersi la qualifica di imprenditori commerciali.

Per le società vigeva l’orientamento secondo il quale non si aveva estinzione dell’impresa, fino a quando non risultassero estinti tutti i rapporti obbligatori facenti capo all’ente. Per la società non avrebbe rilevato la concreta cessazione dell’attività, né lo scioglimento, né la cancellazione dal registro delle imprese, né la dichiarazione di chiusura della liquidazione ma soltanto l’integrale soddisfacimento di tutti i creditori. Ma questa impostazione avrebbe potuto contrastare con l’assunto dell’art. 10 della Legge Fallimentare, creando altresì disparità di trattamento tra creditori di una ditta individuale e di una società.

Inoltre, la tesi era in contrasto con la disciplina civilistica delle società che non prevede una reviviscenza dell’ente a causa del sopraggiungere di sopravvenienze passive, per le quali rispondono i soci, illimitatamente, nelle società di persone e, limitatamente alla somma percepita nella liquidazione, nelle società di capitali (art. 2312 e 2456 del Codice Civile). Secondo a disciplina civilistica, allora, una società liquidata e cancellata dal registro delle imprese poteva essere dichiarata fallita soltanto entro un anno dalla cancellazione.

A questa soluzione è giunta anche la Corte Costituzionale: la sentenza del 21 luglio 2000, n. 319, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della Legge Fallimentare nella parte in cui prevedeva che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento di ‘un’impresa collettiva decorresse dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società invece che dalla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Successivamente, le ordinanze del 7 novembre 2001, n. 361, e del 22 aprile 2002, n. 131, ritenendo manifestamente infondata la questione di incostituzionalità dell’art. 10 della Legge Fallimentare nella parte in cui non prevedeva che la sentenza di fallimento dell’imprenditore individuale potesse essere pronunciata entro un anno dalla iscrizione della cessazione nel registro delle imprese, la Corte osservava che anche nell’applicazione dell’art. 10 della Legge Fallimentare alle imprese individuali, dovesse valere il principio della cancellazione dal registro delle imprese, salvo che i creditori dimostrassero la continuazione dell’attività oltre quella data.

Tali principi sono stati sanciti nel codice civile laddove l’art. 2495, comma 2, stabilisce che la cancellazione dal registro delle imprese determina l’estinzione della società.

Pertanto oggi l’art. 10 della Legge fallimentare si ritiene faccia decorrere il termina annuale per la dichiarazione di fallimento, sia per le imprese individuali che collettive, dalla data di iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese. Resta salvo l’art. 2490 del Codice civile, per il quale la società è cancellata d’ufficio qualora per oltre tre anni consecutivi non sia stato depositato il bilancio di liquidazione e restano salvi gli arti. 2191 del Codice civile e 17 del DPR 7 dicembre 1995, n. 581, per cui il giudice del registro può ordinare la cancellazione con decreto previa audizione dell’imprenditore interessato.

È sempre ammessa la prova contraria e legittimati a provare la prosecuzione dell’attività oltre la data di cancellazione sono soltanto il creditore o il Pubblico Ministero.

L’art. 10 della Legge Fallimentare non si applica alle società di fatto, alle società irregolari e alle società occulte per le quali la dichiarazione di fallimento potrà avvenire entro un anno dalla cessazione dell’attività a seguito del compimento delle operazioni di liquidazione.

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